Mia nonna Cesara, labronica purosangue, è sempre stata un’ottima cuoca oltre che una nonna eccezionale, ma negli anni che è stata sfollata a Lucca e con i pochi soldi che riusciva a racimolare ogni tanto mio nonno lavorando per gli ameri’ani di Tombolo, non poteva certo dare sfogo alla sua bravura e alla sua fantasia.
Mi raccontava sempre, mamma, di quante volte ha dovuto mangiare la polenta sola e completamente sciocca sostenendo che è in assoluto la cosa più cattiva che esiste in natura e quanto avesse rimpianto Livorno che almeno lì si poteva usare l’acqua di mare bollita e filtrata.
E di quella volta che ha portato i boccaccini agli angoli della bocca per un mese per via del latte dei fichi perché, spinta dalla fame, ne aveva mangiata una grembialata che erano ancora acerbi, o di quando, a piedi, è andata in un paese a sei o sette chilometri di distanza, con ben strette in pugno alcune lire portate il giorno prima da nonno Agostino, per comprare delle patate da un contadino che le avevano detto averne assai…
Non ne aveva assai perché, alla richiesta speranzosa di mamma, rispose che se le avesse vendute a lei, non avrebbe saputo cosa dar da mangiare ai maiali.
Tornò indietro piangendo e, nonostante io, negli anni, abbia cercato un mucchio di volte di farle capire che il buono e il cattivo stanno da tutte le parti, lei non è mai riuscita a dimenticare e, ancora meno, a perdonare tutta la categoria degli agricoltori tant’è vero che, quando vedeva in tv qualche sciopero o qualche manifestazione tipo quelle per le “quote latte”, dava sempre ragione alla parte avversa.
Questa bravura di nonna Cesara che vi dicevo, era stata però notevolmente limitata dalla bomba americana che le aveva tirato giù la casa in Borgo Cappuccini piantandole, fra l’altro, una scheggia in un braccio che non le ha più permesso di alzarlo nemmeno fino all’altezza del fornello, ed una in una gamba che la faceva camminare lenta e curva; allora, quando in tre sulla Lambretta s’affrontava quel viaggio avventuroso verso Livorno per andare a trovare nonni e zie a Colline, dove erano ritornati ad abitare, a volte mia madre si metteva ai fornelli e mia nonna dirigeva.
Buone le triglie, buono il cacciucco, buoni gli spaghetti coi favolli, ma io ero curioso di mangiare quello che mangiavano a quei tempi e un giorno, finalmente, riuscii a farmi fare la famosa “minestra co’ sassi”: si trattava di prendere un paio di quei bei sassi spugnosi che stanno sui fondali, metterli in pentola con la cipolla e gli altri odori, sale (allora aggiungevano l’acqua di mare del secchio con cui erano stati trasportati i sassi stessi) e quando bolliva si buttava la pastina da brodo. Una volta nel piatto, si aggiungeva un po’ di pepe, olio, se c’era, e formaggio pecorino, se c’era. Mi sembrò di non aver mai mangiato una minestra così buona in vita mia e avrei voluto caricare la Lambretta di quei sassi per portarli a casa e farmi fare quella minestra al posto delle solite che invece ero abituato a mangiare; ovviamente non l’ho più mangiata in vita mia, ma mi ha lasciato uno dei ricordi più struggenti e indefiniti di quando ero bambino.
Fra tutte queste ricette “povere”, c’era anche l’unica trippa che quell’arrogante ulcera particolarmente selettiva di mio padre riuscisse a tollerare: era la “trippa finta”.
Basta preparare un bel soffritto come al solito con aglio, sedano, cipolla e carota e, appena pronto, aggiungere qualche cucchiaio di polpa di pomodoro facendo cuocere il tutto come quando si fa la pommarola; nel frattempo preparate, chiaramente a seconda del numero dei commensali, delle frittate che devono risultare abbastanza sottili ma compatte. Nelle uova sbattute, oltre al sale e al pepe, si aggiunge del formaggio che può esser parmigiano o pecorino (o metà e metà) e un goccio di latte, se serve, per rendere il tutto bello cremoso e liscio; non ci sta male un po’ di pane grattugiato e un niente di noce moscata o, addirittura, del vino bianco al posto del latte, ma basta che le frittate risultino abbastanza “sode” da poter essere tagliate a striscioline, proprio come la trippa. Mettete queste striscioline, da fredde, a insaporire qualche minuto nella salsetta che avete preparato e, se volete, spolverate con prezzemolo tritato, ma, se abitualmente lo fate con la trippa vera, fatelo anche con questa: spolverate un bel po’ di parmigiano grattugiato!
La minestra coi sassi è più problematica da preparare e, comunque, non credo che vi emozionerebbe come seppe fare con me, ma la “trippa finta” è semplice, molto nutriente e piace molto anche ai bambini.
Mia madre me la faceva più che volentieri quando gliela chiedevo, bastava che andassi a comprare le uova in negozio invece che direttamente dal contadino…