La Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana, che si occupa di promuovere la conoscenza dell’emigrazione dall’800 ai giorni nostri, ha deciso di approfondire un autentico dramma italiano che si sta consumando negli ultimi anni: l’esodo dei nostri giovani all’estero, in cerca di lavoro e di un futuro migliore.
Lo fa con un docufilm dal titolo “Italia addio, non tornerò”, basato su 30 interviste a giovani espatriati (alcuni anche della provincia di Lucca) raggiunti in varie parti del mondo: Australia, Stati Uniti, Germania, Estonia, Spagna, Gran Bretagna.
Nel 2017 sono partiti 285.000 italiani (fonte Idos). Secondo l’Ocse (l’organizzazione mondiale per la cooperazione e lo sviluppo) l’Italia è oggi all’ottavo posto nel mondo come paese di emigrazione. L’emigrazione italiana, fermatasi per decenni dagli anni ’70, è tornata ai livelli del dopoguerra. L’Italia vorrebbe essere lasciata da quasi un terzo dei residenti. Circa un giovane su due, secondo la Fondazione Migrantes, vorrebbe andarsene. Il costo di questo esodo è enorme. L’Italia forma giovani nel percorso scolastico e universitario che poi portano le loro competenze ed energie all’estero. Un danno economico che Confindustria ha calcolato in 14 miliardi di euro all’anno. Una perdita di “capitale umano” stimata in un punto di Pil, il prodotto interno lordo, ogni anno.
Dati impressionanti che evidenziano un fallimento del sistema Italia. Il nostro paese, invecchiato e pessimista, non sembra più essere un posto per giovani.
L’attuale emigrazione non è più quella del secolo scorso e del precedente, quando i nostri emigranti partivano con la valigia di cartone e con nel cuore lo strazio del distacco e il dolore per la terra perduta. Ora, nell’epoca della globalizzazione e degli spostamenti facili, i nostri giovani partono consapevoli di se stessi e delle proprie capacità che in Italia non hanno potuto applicare. Molti si sentono cittadini del mondo, fanno parte della generazione abituata a vivere senza confini, viaggiatori per natura. Sono internazionalizzati e ritengono l’Italia un paese immobile, ripiegato su se stesso. A costoro, in larga parte, l’Italia sta stretta.
Se l’Italia è vittima del pessimismo, della depressione, della rassegnazione e della sfiducia, i giovani che vivono e lavorano all’estero hanno raccontato alla Fondazione Cresci di aver sperimentato fuori dai nostri confini una realtà diversa: meno stress e più meritocrazia. In Italia, dicono tutti, il sistema taglia le gambe, fa strada solo chi è raccomandato, chi ha una famiglia potente alle spalle, nessuno ti voleva insegnare niente, anzi ti mettevano i bastoni fra le ruote per timore che un giorno tu potessi rubargli il lavoro. In Italia, dicono, si tende ad avere verso i giovani un atteggiamento negativo, ad avere fiducia solo verso chi può vantare una buona esperienza, mentre all’estero ti mettono alla prova e se lavori bene si fidano di te.
Anche loro, però, come i nostri emigranti di un tempo, raccontano di inizi duri, di un senso di spaesamento inizialmente feroce. Solo che le tappe sono più ravvicinate. Tutti sostengono di aver raggiunto in poco tempo obiettivi che in Italia sarebbero stati impossibili.
Andare all’estero, dicono, ti fa tirare fuori le tue migliori energie, ti fa essere più concentrato sul tuo impegno e sulle tue motivazioni e sul raggiungimento dei tuoi obiettivi. Partire è un’assunzione di responsabilità perché costa fatica stare fuori dal nido.
Un dato importante emerso dalle interviste riguarda l’integrazione. I giovani intervistati sono tutti consapevoli che bisogna adattarsi agli usi e costumi del paese in cui vivono, e lo fanno con entusiasmo. Ma non rinunciano all’italianità. Rimangono orgogliosi di essere italiani, per la storia, l’arte e la cultura che ci identificano nel mondo. Anzi, tutti dicono che stando all’estero apprezzano molto di più l’Italia perché la vedono con gli occhi degli stranieri: un paese pieno di fascino e di bellezza. All’estero è ancora un brand la parola “Italia”. Vogliono essere integrati, ma non rinunciare alle proprie radici e portare altrove un briciolo di italianità, che identificano con la creatività. All’estero, dicono, sono più rigidi, noi siamo più fantasiosi e creativi.
Quando tornano per brevi periodi spesso si sentono in difficoltà: non sono né carne né pesce, sono italiani, ma col lavoro, la casa e la vita costruiti altrove. Tornare a casa è bello solo perché temporaneo, anche se a volte li assale la nostalgia e il senso della perdita. Un groviglio di sentimenti già vissuto dai nostri nonni espatriati.
Quasi nessuno di loro – ed è questo il dato tragico e nello stesso tempo la grande differenza con l’emigrazione di un tempo – vuole tornare definitivamente in Italia. L’Italia, dicono, non è più un posto in cui sperare, ci piace, ma da turisti. Il futuro è altrove.
Questo in sintesi quanto emerge dal docufilm, il primo mai realizzato finora in Italia con così tante testimonianze raggruppate tutte insieme.
Il valore aggiunto del documentario è la colonna sonora originale firmata da Massimo Priviero, un musicista con base a Milano, che ha messo a disposizione della Fondazione i brani del suo ultimo album tutto dedicato all’emigrazione italiana di ieri e di oggi. Si intitola “All’Italia” ed è un inno di amore e di dolore per la nostra patria bistrattata.
I brani delle canzoni sono la narrazione, in chiave musicale, degli stessi sentimenti, emozioni ed esperienze raccontate dagli intervistati. Il docufilm quindi si svolge su due livelli, che si intersecano e si arricchiscono a vicenda: musica e parole che portano alle stesse conclusioni.
Gran parte delle immagini di repertorio sono state offerte dall’archivio video di Mediaset.
Il documentario sarà presentato in anteprima a Lucca il 26 ottobre alle 17, a Palazzo Ducale, sala Tobino. Sarà presente Massimo Priviero, che terrà anche un piccolo concerto con le sue canzoni più significative.
La giornalista di SkyTg24 Mariangela Pira, esperta di economia, inquadrerà il fenomeno nel più complesso e vasto quadro economico italiano.